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i diritti del malato e per il diritto alla salute
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Danni "da sangue infetto" - prescrizione – eccezione –
giudizio separato di liquidazione – irrilevanza – dies
a quo – manifestazione esteriore del danno – insussificenza – causalità civile – diversità con la
causalità penale – precisazioni [artt. 2043-2935]
Anche
allorché sia proposta domanda di condanna generica al
risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che
assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di
sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di
decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il giudice
di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una
preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa
venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del
diritto azionato.
Il termine di
prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver
contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo
decorre, non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce
il danno altrui o dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma
dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto
conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria
oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze
scientifiche.
L’onere della prova della
provenienza del sangue utilizzato e dei controlli eseguiti grava non solo sul
danneggiato, ma anche sulla struttura sanitaria che dispone per legge o per
regola tecnica della documentazione sulla “tracciabilità”
(c.d. principio della vicinanza alla prova).
Non può riconoscersi la
responsabilità per omissione quando il comportamento omesso, ove anche fosse
stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento prospettato: la
responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un comportamento
antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé un
comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione
non è causa del danno lamentato. Il giudice pertanto è tenuto ad accertare se
l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità omissiva) nel senso che
esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica) l'agente avesse posto
in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione di fattori
alternativi. L'accertamento del rapporto di causalità
ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale"
che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde
verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal
danneggiato. Si deve quindi ritenere che i principi generali che regolano la
causalità di fatto sono anche in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e 41 c.p e dalla
"regolarità causale", in assenza di altre norme nell'ordinamento in
tema di nesso eziologico ed integrando essi principi di tipo logico e conformi a massime di esperienza.
Tali norme, però, vanno
adeguate alla specificità della responsabilità civile, rispetto a quella
penale, perché muta la regola probatoria: mentre nel processo penale vige la
regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, nel processo civile vige la
regola della preponderanza dell’evidenza, o del “più probabile che non”.
Sul Ministero grava un
obbligo di controllo e di vigilanza in materia di impiego
di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o
preparazione di emoderivati) anche strumentale alle
funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinchè venga utilizzato sangue non infetto, con la
conseguenza che, un’eventuale omissione, giustifica una piena responsabilità
civile.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI
Sentenza 11 gennaio 2008, n. 581
Svolgimento del processo
Con
atto notificato il 27.10.1999, 223 attori convenivano davanti al tribunale di Roma il
Ministero della Sanità, chiedendone la condanna al risarcimento del danno, da
liquidarsi in separato giudizio, ai sensi degli artt.
2043, 2049 e 2050 c.c. per non avere evitato che agli attori o ai loro danti
causa, che necessitavano per patologie congenite di continue trasfusioni, venissero
somministrati prodotti emoderivati senza i necessari
controlli, per cui questi contraevano varie affezioni,
quali HIV, HBV ed HCV, alle quali a distanza di alcuni anni in alcuni casi
seguiva la morte.
Intervenivano in giudizio
anche altri soggetti che assumevano anch'essi di aver contratto il contagio e
di avere diritto al risarcimento del danno.
Il Tribunale accoglieva
la domanda di condanna generica al risarcimento del
danno. L'appello proposto dal Ministero veniva rigettato dalla
corte di appello di Roma, con sentenza depositata il 12.1.2004.
Riteneva la corte territoriale che l'eccezione di prescrizione era
infondata, in quanto a norma dell'art. 2935 c.c. il diritto può essere
esercitato solo allorché il titolare abbia raggiunto la piena cognizione
dell'esistenza e del fondamento del medesimo, ed individuando il dies a quo nel momento del rilascio delle certificazioni
relative all'indennizzo di cui alla legge n. 210 del 1992 da parte delle
Commissioni medico ospedaliere. Riteneva la corte di merito che il termine di
prescrizione era decennale, trattandosi di fattispecie di reati di epidemia
colposa, lesioni colpose plurime e di omicidio colposo. Nel merito riteneva la
corte che, trattandosi di accertamento del solo an debeatur non era necessario valutare la prescrizione in
relazione alle singole posizioni, attenendo tale valutazione al successivo
giudizio di liquidazione dei danni, mentre risultava accertata la riconducibilità degli eventi dannosi alla responsabilità
dell'amministrazione per essere gli stessi stat i
causati da emotrasfusione o assunzione di emoderivati con sangue infetto, come riconosciuto dallo
stesso Ministero che aveva erogato l'indennità di cui alla legge n. 210 del
1992.
Riteneva poi il giudice
di appello che l'Amministrazione era in possesso delle
fin dagli anni '70 di elementi di studio e di ricerca tali da consentire di
individuare almeno il virus dell'epatite B e quindi da rendere obbligatoria
l'adozione di misure di prevenzione. La corte riconosceva, inoltre, agli attori
anche il diritto al risarcimento del danno morale. Nelle more interveniva una
transazione tra il Ministero e gran parte degli attori. Il Ministero della
salute impugnava la sentenza della corte di appello
nei confronti dei soggetti con cui non aveva transatto la lite e cioè:
...vari....
I predetti intimati, ad
eccezione degli ultimi tre, resistevano con controricorso;
essi hanno presentato anche memoria.
Motivi della decisione
1.1. La causa è stata
rimessa alle Sezioni Unite, presentando questioni di massima di
particolare importanza relative: al nesso causale in tema di
responsabilità civile, segnatamente da condotta omissiva; al dies a quo della prescrizione per il risarcimento dei danni
lungolatenti; alla responsabilità del Ministero della
Salute per danni "da sangue infetto".
1.2. Preliminarmente va
dichiarato inammissibile il ricorso nei confronti di A. C., per sopravvenuta
carenza di interesse.
Infatti come risulta
dalla documentazione prodotta da quest'ultima, tra lei ed il Ministero della
Salute è intervenuta una transazione, la quale, comportando la cessazione della
materia del contendere, fa venire meno l'interesse del
ricorrente alla decisione del ricorso nei confronti dell'A..
1.3.Con il primo motivo di ricorso il
ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt.
2697, 2934, 2935, 2943, 2946, 2947 c.c., 112 c.p.c, nonché omessa,
insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia, a norma dell'art. 360, n. 3, 4 e 5 c.p.c..
Il ricorrente assume che erratamente, ai fini della prescrizione, nel corso del
giudizio di merito non sono state vagliate autonomamente le varie posizioni
degli attori, risalenti a diversi momenti, giustificando ciò con il rilievo che
nella fattispecie si trattava di domanda di condanna
generica al risarcimento del danno. Assume poi che i fatti nella maggior parte
dei casi si collocavano tra il 1978 ed il 1988 e che quindi al momento della
proposizione della domanda erano maturate sia la prescrizione decennale che
quella quinquennale, le quali andavano valutate con riferimento al verificarsi
del danno.
Secondo il ricorrente in
ogni caso il termine di prescrizione è quinquennale e non decennale, sia perché
il convenuto nel giudizio risarcitorio non coincide
con l'autore dell'illecito penale, sia perché manca
l'esistenza dell'elemento soggettivo del reato , sia perché nella fattispecie
sussistevano cause di giustificazione, quali la scriminante
dell'attività medico-chirurgica e quella del consenso dell'avente diritto. 2.1.
Il motivo è solo in parte fondato.
Esso è fondato nella
parte in cui censura l'impugnata sentenza, allorché questa ritiene che la
posizione dei singoli attori, ai fini dell'eccepita prescrizione, non fosse
rilevante nella fattispecie, trattandosi di accertamento del solo an debeatur, mentre solo nel
successivo giudizio di quantificazione del danno tale singole posizioni
andavano vagliate ai fini della prescrizione.
Infatti non rileva che,
nella specie, fosse stata chiesta una condanna in forma generica, dal momento
che anche questo tipo di statuizione conforma autoritativamente
i contenuti sostanziali del rapporto obbligatorio,
imponendo all'obbligato di eseguire una prestazione e rende il vincitore
titolare di actio iudicati
(cfr. Cass. n. 18825 del
2002; n. 3727 del 2000), cosicché' la parte convenuta
ha l'onere di eccepire tempestivamente la prescrizione, essendole precluso di
farlo nel giudizio sul quantum (cfr. Cass. n. 3243 del 1985; n. 5211 del 1980).
Pertanto anche a fronte
di una domanda di condanna in forma generica, il
convenuto che assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto
ha l'onere di sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di
legge a pena di decadenza (cfr. Cass., 23/04/2004, n.7734; Cass.
27/05/2005, n.11318). Ciò comporta che il giudice di
primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una
preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza
della prescrizione fa venir meno ogni interesse della parte all'accertamento
dell'esistenza del diritto azionato (Cass. 04/04/1992, n.4151;
Cass. 1/08/1987, n.6651).
Solo così impostata e
risolta la questione si intende il conseguenziale
principio secondo cui la sentenza di condanna generica
passata in giudicato determina l'assoggettamento dell'azione diretta alla
liquidazione al termine prescrizionale di cui all'art. 2953 ce, nonché la
produzione degli effetti interruttivi della
prescrizione nei confronti di coloro che hanno esercitato le azioni concluse
con la condanna generica (Cass. 15/09/1995, n.9771;
Cass. 13/12/2002, n.17825; Cass. 04/04/2001, 4966 ).
2.2.Fondata è anche la censura secondo cui
nella fattispecie non è ipotizzabile un reato di epidemia colposa o lesioni
colpose plurime.
Per poter usufruire di un
termine più lungo di prescrizione rispetto a quello quinquennale di cui
all'art. 2947, c. 1, ce, sarebbe necessario ritenere
ipotizzabili i reati di lesioni colpose plurime o di epidemia colposa, o
omicidio colposo, per i quali i termini prescrizionali erano di dieci anni.
Sebbene il regime della
prescrizione penale sia cambiato (L. 5.12.2005, n.
251), va, tuttavia, osservato che la prescrizione da considerare , ai fini civilistici di cui
all'art. 2947, c. 3, è quella prevista alla data del fatto, mentre i principi
di cui all'art. 2 c.p. attengono solo agli aspetti penali, per effetto di
successioni di leggi penali nel tempo. Nella fattispecie è da escludere il
reato di epidemia colposa (art. 438.452 c.p.), in quanto quest'ultima
fattispecie, presupponente la volontaria diffusione
di germi patogeni, sia pure per negligenza, imprudenza
o imperizia, con conseguente incontrollabilità dell'eventuale patologia in un
dato territorio e su un numero indeterminabile di soggetti, non appare
conciliarsi con l'addebito di responsabilità a carico del Ministero,
prospettato in termini di omessa sorveglianza sulla distribuzione del sangue e
dei suoi derivati: in ogni caso, la posizione del Ministero è quella di un
soggetto non a diretto contatto con la fonte del rischio. A ciò si aggiunga che
elementi connotanti il reato di epidemia sono : a) la
sua diffusività incontrollabile all'interno di un
numero rilevante di soggetti, mentre nel caso dell'HCV e dell'HBV non si è al
cospetto di malattie a sviluppo rapido ed autonomo verso un numero
indeterminato di soggetti; b) l'assenza di un fattore umano imputabile per il
trasferimento da soggetto a soggetto, mentre nella fattispecie è necessaria
l'attività di emotrasfusione con sangue infetto; c)
il carattere contagioso e diffuso del morbo, la durata cronologicamente
limitata del fenomeno (poiché altrimenti si verserebbe in endemia). Va esclusa
anche la configurabilità del reato di lesioni colpose
plurime, stante l'impossibilità di individuare in capo al Ministero una
condotta omissiva unica dalla quale scaturirebbero le lesioni sofferte dai vari
danneggiati, tanto più se si tiene conto che le singole attività di omissioni
di controllo e vigilanza fanno capo a diversi soggetti (persone fisiche)
succedutisi nel tempo con diversi e successivi atti di autorizzazione alla
commercializzazione ed al consumo di partite di sangue.
2.3.Rimane, quindi, solo la configurabilità dei reati di lesioni colpose, anche
gravissime, o del reato di omicidio colposo non potendosi negare che il
comportamento colposamente omissivo da parte degli organi del Ministero
preposti alla farmacosorveglianza sia stata una
causa, quanto meno concorrente, nella produzione dell'evento dannoso. Sennonché
va osservato che la prescrizione decennale nell'ipotesi di configurabilità
di omicidio colposo opera solo in favore di quegli attori (congiunti del
contagiato) che abbiano agito in giudizio (iure
proprio) per il risarcimento del danno causato dal decesso ascrivibile all'emotrasfusione (o all'assunzione di emoderivati)
con sangue infetto e non per tutti gli altri attori che abbiano agito nello
stesso giudizio solo per richiedere il risarcimento del danno conseguente a
lesioni colpose.
2.4.Quando, invece, ricorra solo
quest'ultima ipotesi (lesioni colpose) va osservato che anche la prescrizione
del reato di lesioni colpose matura in cinque anni.
2.5.Infondata è la censura secondo cui non
sarebbe possibile nella fattispecie un'equiparazione del termine prescrizionale
civile a quello penale ( nei termini di cui all'art. 2947, c. 3, ce.) non
essendo il Ministero l'autore dell'illecito penale.
Infatti in tema di
prescrizione del diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito,
la previsione dell'art. 2947, c. 3, et. si riferisce,
senza alcuna discriminazione, a tutti i possibili soggetti passivi della
pretesa risarcitoria e si applica, pertanto, non solo all'azione civile
esperibile contro la persona penalmente imputabile, ma
anche all'azione civile diretta contro coloro che siano tenuti al risarcimento
a titolo di responsabilità indiretta (Cass. 09/10/2001, n.12357;
Cass. 6/02/1989, n.729).
2.6.Infondata è anche la censura secondo cui la
corte territoriale non avrebbe valutato l'esistenza dell'elemento psicologico,
pur necessario ai fini della ritenuta sussistenza dei reati di omicidio colposo
(per le sole fattispecie in cui ricorra) o lesioni colpose. E' vero che nel
caso in cui l'illecito civile sia considerato dalla
legge come reato, ma il giudizio penale non sia stato promosso, l'eventuale più
lunga prescrizione prevista per il reato si applica anche all'azione di
risarcimento dei danni, a condizione che il giudice civile accerti "incidenter tantum" la sussistenza di una fattispecie
che integri gli estremi di un fatto-reato in tutti i suoi elementi costitutivi,
soggettivi e oggettivi (Cass. 28/07/2000, n.9928;
Cass. 10/06/1999, n.5701).
Sennonché nella
fattispecie la sentenza impugnata (pag. 16) riscontra l'elemento colposo
dell'Amministrazione: ( e, quindi, dei suoi funzionari) nel non adottare gli
accorgimenti utili a scongiurare il contagio di tali note patologie effettuando
determinati trattamenti ed analisi del sangue acquisito.
2.7.Inammissibile è la censura secondo cui
l'Amministrazione avrebbe agito in presenza l'attività medico-chirurgica e del
consenso dell'avente diritto e che di tener conto il giudice di appello. A
parte ogni altra considerazione, va rilevato che il ricorrente non ha indicato
se e quando tale questione sia stata posta all'esame del giudice di merito, non
risultando sul punto alcunché nella sentenza impugnata.
Qualora una determinata
questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti
trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la
suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di
inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare
l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche,
per il principio di autosufficienza del ricorso per Cassazione, di indicare in
quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare "ex actis"
la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione
stessa (Cass. 21/02/2006, n.3664; Cass. 22/05/2006,
n. 11922 ; Cass. 19/05/2006, n. 11874;Cass. 11/01/2006, n. 230).
3.1. Il punto di maggior
rilievo è l'individuazione del dies a quo per la
decorrenza della prescrizione in ipotesi di fatto dannoso lungolatente,
quale è quello relativo a malattia da contagio.
Come è noto, in base
all'art. 2935 ce, norma assolutamente aperta a molteplici e contrapposte
interpretazioni, la prescrizione della pretesa risarcitoria inizia a decorrere
dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. L'art. 2947, 1° comma,
ce. aggiunge che il diritto al risarcimento del danno
da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il «fatto si è
verificato».
Nell'evoluzione
giurisprudenziale questa Corte (Cass. n. 12666 del 2003; Cass. n. 9927 del 2000) ha affrontato il significato da
attribuirsi all'espressione «verificarsi del danno», specificando che il danno
si manifesta all'esterno quando diviene «oggettivamente percepibile e
riconoscibile» anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. La Corte,
successivamente, ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno di chi assume di avere contratto per contagio una
malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere, a norma
dell'art. 2947, 1° comma, ce non dal momento in cui il
terzo determina la modificazione che produce danno all'altrui diritto o dal
momento in cui la malattia si manifesta all'esterno, ma dal momento in cui la
malattia viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto
conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria
diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenz
e scientifiche. Qualora
invece non sia conoscibile la causa del contagio, la
prescrizione non può iniziare a decorrere, poiché la malattia, sofferta come
tragica fatalità non imputabile ad un terzo, non è idonea in sé a concretizzare
il "fatto" che l'art. 2947, 1° comma, ce. individua
quale esordio della prescrizione (Cass. 21/02/2003, n.2645 ; Cass. 05/07/2004, n. 12287; Cass. 08/05/2006, n. 10493).
Viene applicato,
unitamente al principio della «conoscibilità del danno», quello della «rapportabilità causale».
3.2.Ritengono queste Sezioni Unite di dover
condividere tale ultimo orientamento. L'individuazione del dìes
a quo ancorata solo ed esclusivamente al parametro deH'«esteriorizzazione
del danno» può, come visto, rivelarsi limitante ed impedire una piena
comprensione delle ragioni che giustificano l'inattività (incolpevole) della
vittima rispetto all'esercizio dei suoi diritti.
È quindi del tutto
evidente come l'approccio all'individuazione del dies
a quo venga a spostarsi da una mera disamina dell'evolversi e dello snodarsi
nel tempo delle conseguenze lesive del fatto illecito o dell'inadempimento - e
cioè delle diverse tappe che caratterizzano il passaggio dal danno «occulto» a
quello che si manifesta nelle sue componenti
essenziali ed irreversibili - ad una rigorosa analisi delle informazioni, cui
la vittima ha avuto accesso o per la cui acquisizione si sarebbe dovuta
diligentemente attivare, della loro idoneità a consentire al danneggiato una
conoscenza, ragionevolmente completa, circa i dati necessari per
l'instaurazione del giudizio (non solo il danno, ma anche il nesso di causa e
le azioni/omissioni rilevanti) e della loro disponibilità in capo al convenuto,
con conseguenti riflessi sulla condotta tenuta da quest'ultimo eventualmente
colpevole di non avere fornito quelle informazioni alla vittima, nei casi in
cui era a ciò tenuto ( ciò è pacifico negli ordinamenti anglosassoni, in tema
di medicai malpractice).
3.3.Va specificato che il
suddetto principio in tema di exordium praescriptionis , non apre la
strada ad una rilevanza della mera conoscibilità soggettiva del danneggiato.
Esso deve essere saldamente ancorato a due parametri obiettivi, l'uno interno e
l'altro esterno al soggetto, e cioè da un lato al parametro dell'ordinaria
diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca,
comunque entrambi verificabili dal giudice senza
scivolare verso un'indagine di tipo psicologico. In particolare, per quanto
riguarda l'elemento esterno delle comuni conoscenze scientifiche esso non andrà
apprezzato in relazione al soggetto leso, in relazione al quale l'ordinaria
diligenza dell'uomo medio si esaurisce con il portarlo presso una struttura
sanitaria per gli accertamenti sui fenomeni patologici avvertiti, ma in
relazione alla comune conoscenza scientifica che in merito a tale patologia era
ragionevole richiedere in una data epoca ai soggetti a cui
si è rivolta (o avrebbe dovuto rivolgersi) la persona lesa.
3.4. I principi, quindi,
che vanno affermati, sono i seguenti:
" Anche allorché
sia proposta domanda di condanna generica al
risarcimento del danno, da liquidarsi in separato giudizio, il convenuto, che
assuma che il proprio debito sia in tutto o in parte prescritto, ha l'onere di
sollevare la relativa eccezione in tale giudizio nei termini di legge a pena di
decadenza e non nel successivo giudizio di liquidazione del danno; il giudice
di primo grado ha l'obbligo di decidere su tale eccezione, che integra una
preliminare di merito, per cui l'eventuale sussistenza della prescrizione fa
venir meno ogni interesse della parte all'accertamento dell'esistenza del
diritto azionato" "Il termine di prescrizione del diritto al
risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una
malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, c. l,c.c, non dal giorno in cui il terzo determina la
modificazione che produce il danno altrui o dal momento in cui la malattia si
manifesta all'esterno, ma dal momento in cui viene percepita o può essere
percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo
di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della
diffusione delle conoscenze scientifiche".
4. Il problema che si
pone, anche con riferimento al giudizio in esame, è la valenza del responso
delle Commissioni mediche ospedaliere, istituite presso
ospedali militari, di cui all'art. 4 1.210/1992, ai fini della
decorrenza della prescrizione.
In linea generale non può
ritenersi che solo con la comunicazione di tale responso inizi a decorrere la
prescrizione, come pure sostenuto da parte della giurisprudenza di merito. Tale tesi non pare convincente, per diversi ordini di
motivi: perché offre effettivamente il destro al creditore per dilatare a suo
piacere il corso della prescrizione; perché potrebbe portare ad affermare che
il dies a quo inizi anche a decorrere a causa già
iniziata, negando l'effetto interruttivo connaturato
alla proposizione dell'azione; perché rischia di enfatizzare il ruolo della
consulenza medico-legale (effettuata peraltro in riferimento al diverso
procedimento di liquidazione dell'indennizzo). Inoltre è illogico ritenere che
il decorso del termine di prescrizione possa iniziare dopo che la parte si è
comunque attivata per chiedere un indennizzo per lo stesso fatto lesivo, pur
nella diversità tra diritto all'indennizzo e diritto al pieno risarcimento di
tutte le conseguenze del fatto danno so.
Tenuto conto che
l'indennizzo è dovuto solo in presenza di danni
irreversibili da vaccinazioni, emotrasfusioni o
somministrazioni di emoderivati, appare ragionevole
ipotizzare che dal momento della proposizione della domanda amministrativa la
vittima del contagio deve comunque aver avuto una sufficiente percezione sia
della malattia, sia del tipo di malattia che delle possibili conseguenze
dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la
certificazione emessa dalle commissioni mediche. 5. Ne consegue che nella
fattispecie sono fondate le censure relative al mancato accertamento della
prescrizione in relazione a ciascuna posizione soggettiva anche in sede di
giudizio relativo solo a domanda di condanna generica,
alla ritenuta decorrenza decennale della prescrizione del diritto al
risarcimento del danno perché il fatto costituirebbe un'ipotesi di reato di
epidemia colposa o lesioni personali plurime, (mentre la prescrizione è
decennale in relazione a domande rela tive a risarcimento del danno da decesso, proposte da
congiunti iure proprio, in cui è ipotizzabile un omicidio colposo); è infondata
la censura, per violazione di norme di diritto, relativamente al dies a quo della decorrenza della prescrizione, avendo il
giudice di merito fatto decorrere la stessa dalla data in cui il danneggiato ha
percepito (o avrebbe dovuto percepire) non solo la malattia, ma anche che essa
era conseguenza della trasfusione con sangue infetto; è fondata la censura di
vizio motivazionale della sentenza nella parte in cui ha ritenuto che il
danneggiato avesse avuto conoscenza del danno, anche sotto il profilo eziologico, ai fini dell'exordium
praescriptionis solo con il responso della
commissione medico ospedaliera. 6.Con
il secondo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e falsa
applicazione degli artt. 2043, 2056 ce, nonché
l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia a nonna dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Il Ministero lamenta la violazione di legge in ordine all'accertamento del
nesso causale e dell'elemento psicologico della colpa in capo al Ministero.
In particolare il
ricorrente assume che i virus in questione e le tecniche di rilevazione
sarebbero stati individuati solo nel corso degli anni '80, per
cui, precedentemente a tale data, non poteva ritenersi sussistente, né
un nesso causale tra la pretesa attività omissiva del Ministero e l'evento del
contagio da emotrasfusione o da assunzione di emoderivati né l'elemento soggettivo; che è errato e non
motivato l'assunto apodittico secondo il quale il Ministero già dagli anni 70
sarebbe stato in grado di conoscere ed individuare tali virus; che è errato
l'assunto secondo cui, divenuto conoscibile il primo virus (epatite B), il
Ministero sarebbe tenuto al risarcimento anche per gli altri due (HIV ed epatite
C), anche se ancora non conosciuti alla data dell'emotrasfusione
o dell'assunzione degli emoderivati, sulla base del
principio, affermato dalla sentenza impugnata, che in tema di responsabilità
extracontrattuale si risponde anche dei danni non prevedibili.
Infine il Ministero,
sulla base della normativa all'epoca vigente, nega che su di esso
gravasse un obbligo di vigilanza e controllo tale da renderlo responsabile dei
singoli casi di contagio, avendo egli solo un dovere di vigilanza complessiva e
non specifica sul singolo caso.
7.1. Il motivo è
infondato.
Va anzitutto esaminata la
normativa che regolava l'attività del Ministero in tema di emotrasfusione
e di emoderivati all'epoca dei fatti.
La L.
n. 592/1967, (art. 1) attribuisce al Ministero le direttive tecniche per
l'organizzazione, il funzionamento ed il coordinamento dei servizi inerenti
alla raccolta, preparazione, conservazione, e distribuzione del sangue umano
per uso trasfusionale, alla preparazione dei suoi derivati e ne esercita la
vigilanza, nonché (art. 21) il compito di autorizzare l'importazione e
l'esportazione di sangue umano e dei suoi derivati per uso terapeutico. Il
d.p.r. n. 1256/1971 contiene norme di dettaglio che confermano nel Ministero la
funzione di controllo e vigilanza in materia (artt.
2,3, 103, 112).
La legge n. 519/1973
attribuisce all'Istituto superiore di sanità compiti attivi a tutela della
salute pubblica.
La legge 23.12.1978, n.
833, che ha istituito il Servizio sanitario Nazionale conserva al Ministero
della Sanità, oltre al ruolo primario nella programmazione del piano sanitario
nazionale ed a compiti di indirizzo e coordinamento
delle attività amministrative regionali delegate in materia sanitaria,
importanti funzioni in materia di produzione, sperimentazione e commercio dei
prodotti farmaceutici e degli emoderivati (art. 6
lett. b,c), mentre l'art. 4, n. 6, conferma che la raccolta, il frazionamento e
la distribuzione del sangue umano costituiscono materia di interesse nazionale.
Il d.l.n.
443 del 1987 stabilisce la sottoposizione dei medicinali alla ed. "farmacosorveglianza" da parte del Ministero della
Sanità, che può stabilire le modalità di esecuzione del monitoraggio sui
farmaci a rischio ed emettere provvedimenti cautelari
sui prodotti in commercio.
Ne consegue che, anche
prima dell'entrata in vigore della legge 4.5.1990, n. 107, contenente la
disciplina per le attività trasfusionali e la produzione di emoderivati,
deve ritenersi che sussistesse in materia, sulla base
della legislazione vigente, un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in
materia di sangue umano da parte del Ministero della sanità, anche strumentale
alla funzione di programmazione e coordinamento in materia sanitaria.
L'omissione da parte del Ministero di attività funzionali alla realizzazione
dello scopo per il quale l'ordinamento attribuisce il potere ( qui concernente
la tutela della salute pubblica) lo espone a
responsabilità extracontrattuale, quando, come nella fattispecie, dalla
violazione del vincolo interno costituito dal dovere di vigilanza
nell'interesse pubblico, il quale è strumentale ed accessorio a quel potere,
siano derivate violazioni dei diritti soggettivi dei terzi.
7.2.Inquadrata, quindi, la responsabilità del
Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana
ex art. 2043 ce, da omessa vigilanza, va osservato che, come statuito da Corte
Cost. 22.6.2000 n. 226 e 18.4 1996 n. 118, la menomazione della salute
derivante da trattamenti sanitari può determinare le seguenti situazioni: a) il
diritto al risarcimento pieno del danno, secondo la previsione dell'art. 2043
cod. civ., in caso di comportamenti colpevoli; b) il diritto a un equo
indennizzo, discendente dall'art. 32 della Costituzione in collegamento con
l'art. 2, ove il danno, non derivante da fatto illecito, sia conseguenza
dell'adempimento di un obbligo legale; e) il diritto, ove ne sussistano i
presupposti a norma degli artt. 38 e 2 della
Costituzione, a misure di sostegno assistenziale disposte dal legislatore,
nell'ambito dell'esercizio costituzionalmente legittimo dei suoi poteri
discrezionali.
In quest'ultima ipotesi
si inquadra la disciplina apprestata dalla legge n. 210 del 1992, che opera su
un piano diverso da quello in cui si colloca quella civilistica
in tema di risarcimento del danno, compreso il cosiddetto danno biologico.
Per quanto qui interessa,
al fine di evidenziare la distanza che separa il risarcimento del danno
dall'indennità prevista dalla legge predetta, basta
rilevare che la responsabilità civile presuppone un rapporto tra fatto illecito
e danno risarcibile e configura quest'ultimo, quanto alla sua entità, in
relazione alle singole fattispecie concrete, valutabili caso per caso dal
giudice, mentre il diritto all'indennità sorge per il sol fatto del danno
irreversibile derivante da infezione post-trafusionale,
in una misura prefissata dalla legge. Ciò comporta che vada condiviso
l'orientamento favorevole della più avvertita dottrina al concorso tra il
diritto all'equo indennizzo di cui alla 1. n. 210 del
1992 ed il diritto al risarcimento del danno ex art. 2043 ce, per cui nel caso
in cui ricorrano gli estremi di una responsabilità civile per colpa la presenza
della legge n. 210/1992, come modificata dalla 1. n.
238/1997, non ha escluso in alcun modo che il privato possa chiedere e che il
giudice possa procedere alla ricerca della responsabilità aquiliana,
senza che esista automatismo tra le due figure (mentre non è oggetto di questo
ricorso il diverso problema se si tratti di diritti alternativi, ovvero
cumulabili ed - in caso positivo- in quali termini).
8.1.Inquadrata, quindi, la responsabilità del
Ministero nell'ambito della responsabilità aquiliana
ex art. 2043 ce, da omessa vigilanza, va ora esaminata la questione del nesso
causale in siffatto tipo di responsabilità.
Osserva preliminarmente
questa Corte che l'insufficienza del tradizionale recepimento
in sede civile dell'elaborazione penalistica in tema
di nesso causale è emersa con chiarezza nelle concezioni moderne della
responsabilità civile, che costruiscono la struttura della responsabilità aquiliana intorno al danno ingiusto, anziché al "fatto
illecito", divenuto "fatto dannoso".
In effetti, mentre ai
fini della sanzione penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento
materiale è appunto costituito da condotta, nesso causale, ed evento
naturalistico o giuridico) , ai fini della
responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto in quanto
tale.
E tuttavia un
"fatto" è pur sempre necessario perché la responsabilità sorga,
giacché l'imputazione del danno presuppone l'esistenza di una delle fattispecie
normative di cui agli artt. 2043 e segg. ce, le quali tutte si risolvono nella descrizione di un
nesso, che leghi storicamente un evento o ad una condotta o a cose o a fatti di
altra natura, che si trovino in una particolare relazione con il soggetto
chiamato a rispondere.
Il "danno"
rileva così sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di
conseguenze risarcibili, retto il primo dalla causalità materiale ed il secondo
da quella giuridica.
Il danno oggetto
dell'obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi
esclusivamente il danno conseguenza del fatto lesivo ( di cui è un elemento
l'evento lesivo).
Se sussiste solo il fatto lesivo, ma
non vi è un danno-conseguenza, non vi è l'obbligazione risarcitoria.
8.2.Proprio in conseguenza di ciò si è
consolidata nella cultura giuridica contemporanea l'idea, sviluppata
soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del
giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a
fondare la responsabilità (per la quale la problematica causale, detta
causalità materiale o di fatto, presenta rilevanti analogie con quella penale, artt. 40 e 41 c.p., ed il danno rileva solo come evento lesivo) e la
determinazione dell'intero danno cagionato, che costituisce l'oggetto
dell'obbligazione risarcitoria.
A questo secondo momento
va riferita la regola dell'art. 1223 ce.(richiamato dall'art. 2056 ce), per il
quale il risarcimento deve comprendere le perdite "che siano conseguenza
immediata e diretta" del fatto lesivo (ed. causalità giuridica), per cui esattamente si è dubitato che la norma attenga al
nesso causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento,
selezionando le conseguenze dannose risarcibili. Secondo l'opinione
assolutamente prevalente, occorre distinguere nettamente, da un lato, il nesso
che deve sussistere tra comportamento ed evento perche' possa configurarsi,
a monte, una responsabilità' "stmtturale" (Haftungsbegrùndende
Kausalitàt) e, dall'altro, il nesso che, collegando
l'evento al danno, consente l'individuazione delle singole conseguenze dannose,
con la precipua funzione di delimitare, a valle, i confini di una (già' accertata) responsabilità'
risarcitoria (Haftungsausfullende Kausalitàt).
Secondo la dottrina e la
giurisprudenza prevalente, tale distinzione è ravvisabile, rispettivamente, nel
primo e nel secondo comma dell'art. 1227 ce: il primo comma attiene al
contributo eziologico del debitore nella produzione
dell'evento dannoso, il secondo comma attiene al rapporto evento- danno
conseguenza, rendendo irrisarcibili alcuni danni. Nel
macrosistema civilistico l'unico profilo dedicato al
nesso eziologico, è previsto dall'art. 2043 ce, dove
l'imputaizione del "fatto doloso o colposo"
è addebitata a chi "cagiona ad altri un danno ingiusto", o, come
afferma l'art. 1382 Code Napoleon "qui cause au autrui
un dommage".
Un'analoga disposizione,
sul danno ingiusto e non sul danno da risarcire, non è richiesta in tema di
responsabilità ed. contrattuale o da inadempimento, perché in tal caso il
soggetto responsabile è, per lo più, il contraente rimasto inadempiente, o il
debitore che non ha effettuato la prestazione dovuta. E questo è uno dei motivi
per cui la stessa giurisprudenza di legittimità
partendo dall'ovvio presupposto di non dover identificare il soggetto
responsabile del fatto dannoso, si è limitata a dettare una serie di soluzioni
pratiche, caso per caso, senza dover optare per una precisa scelta di campo,
tesa a coniugare il "risarcimento del danno", cui è dedicato l'art.
1223 ce, con il rapporto di causalità. Solo in alcune ipotesi particolari, in
cui l'inadempimento dell'obbligazione era imputabile al fatto illecito del
terzo, il problema della causalità è stato affrontato dalla giurisprudenza, sia
sotto il profilo del rapporto tra comportamento ed evento dannoso sia sotto quello tra evento dannoso e conseguenze risarcibili.
Il sistema di valutazione
e determinazione dei danni, siano essi contrattuali o extracontrattuali, in
virtù del rinvio operato dall'art. 2056 ce, è composto dagli artt. 1223, 1226 e 1227 ce e, in tema di responsabilità da
inadempimento, anche dalla disposizione dell'art. 1225 ce A queste norme si
deve aggiungere il principio ricavabile dall'art. 1221 ce che si fonda sul giudizio ipotetico di differenza tra la
situazione quale sarebbe stata senza il verificarsi del fatto dannoso e quella
effettivamente avvenuta.
8.3. Ai fini della
causalità materiale nell'ambito della responsabilità aquiliana
la giurisprudenza e la dottrina prevalenti, in
applicazione dei principi penalistici, di cui agli artt. 40 e 41 c.p.,ritengono che un evento è da considerare causato da un
altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe
verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio
sine qua non).
Il rigore del principio
dell'equivalenza delle cause , posto dall'art. 41 c.p, in base al quale, se la produzione di un evento
dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di
esse efficienza causale, trova il suo temperamento nel principio di causalità
efficiente, desumibile dal secondo comma dell'art. 41 c.p.,
in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente
all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da
rendere irrilevanti le altre cause preesistenti,ponendosi al di fuori delle
normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n.
27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n.
268).
Nel contempo non è sufficiente
tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante,
dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a
quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non
appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino
come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c. d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità
causale ( ex multis: Cass. 1.3.2007;
n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass. 27.9.2006, n. 21020; Cass.
3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962).
8.4. Quindi, per la
teoria della regolarità causale, ampiamente utilizzata anche negli ordinamenti
di common law, ciascuno è responsabile soltanto delle
conseguenze della sua condotta, attiva o omissiva, che appaiono
sufficientemente prevedibili al momento nel quale ha agito, escludendosi in tal
modo la responsabilità per tutte le conseguenze assolutamente atipiche o
imprevedibili. Sulle modalità con le quali si deve compiere il giudizio di adeguatezza,
se cioè con valutazione ex ante, al momento della condotta, o ex post, al
momento del verificarsi delle conseguenze dannose, si è interrogata la dottrina
tedesca ben più di quella italiana, giungendo alle prevalenti
conclusioni secondo le quali la valutazione della prevedibilità
obiettiva deve compiersi ex ante, nel momento in cui la condotta è stata posta
in essere, operandosi una "prognosi postuma", nel senso che si deve
accertare se, al momento in cui è avvenuta l'azione, era del tutto imprevedibile
che ne sarebbe potu ta
discendere una data conseguenza. La teoria della regolarità causale, pur
essendo la più seguita dalla giurisprudenza, sia civile che penale, non è
andata esente da critiche da parte della dottrina
italiana, che non ha mancato di sottolineare che il giudizio di causalità
adeguata, ove venisse compiuto con valutazione ex ante verrebbe a coincidere
con il giudizio di accertamento della sussistenza dell'elemento soggettivo. Ma
la censura non pare condivisibile, in quanto tale
prevedibilità obbiettiva va esaminata in astratto e non in concreto ed il metro
di valutazione da adottare non è quello della conoscenza dell'uomo medio ma
delle migliori conoscenze scientifiche del momento (poiché non si tratta di
accertare l'elemento soggettivo, ma il nesso causale).
In altri termini ciò
che rileva è che l'evento sia prevedibile non da parte dell'agente, ma (per
così dire) da parte delle regole statistiche e/o scientifiche, dalla quale
prevedibilità discende da parte delle stesse un giudizio di non improbabilità
dell'evento. Il principio della regolarità causale diviene la misura della
relazione probabilistica in astratto (e svincolata da ogni riferimento
soggettivo) tra comportamento ed evento dannoso (nesso causale) da ricostruirsi
anche sulla base dello scopo della norma violata, mentre tutto ciò che attiene
alla sfera dei doveri di avvedutezza comportamentale andrà più propriamente ad
iscriversi entro l'elemento soggettivo (la colpevolezza) dell'illecito. Inoltre
se l'accertamento della prevedibilità dell'evento, ai fini della regolarità
causale fosse effettuato ex post, il nesso causale sarebbe rimesso alla
variabile del tempo intercorrente tra il fatto dannoso ed il suo accertamento,
nel senso che quanto maggiore è quel tempo tanto maggiore è la possibilità di sviluppo delle conoscenze scientifiche e quindi
dell'accertamento positivo del nesso causale ( con la conseguenza illogica che
della lunghezza del processo, segnatamente nelle fattispecie a responsabilità
oggettiva, potrebbe giovarsi l'attore, sul quale grava l'onere della prova del
nesso causale).
8.5.Nell'imputazione per omissione colposa
il giudizio causale assume come termine iniziale la condotta omissiva del
comportamento dovuto (Cass. n. 20328 del 2006; Cass. n. 21894 del 2004; Cass. n. 6516
del 2004; Cass. 22/10/2003, n.15789) : rilievo che si traduce a volte nell'affermazione
dell'esigenza, per l'imputazione della responsabilità, che il danno sia una
concretizzazione del rischio, che la norma di condotta violata tendeva a prevenire.
E' questa l'ipotesi per la quale in parte della dottrina si parla anche di
mancanza di nesso causale di antigiuridicità e che effettivamente non sembra
estranea ad una corretta impostazione del problema causale, anche se nei soli
limiti di supporto argomentativo
ed orientativo nell'applicazione della regola di cui all'art. 40, c. 2, c.p.. Poiché l'omissione di un certo comportamento, rileva,
quale condizione determinativa del processo causale dell'evento dannoso,
soltanto quando si tratti di omissione di un comportamento imposto da una norma
giuridica specifica (omissione specifica), ovvero, in relazione al configurarsi
della posizione del soggetto cui si addebita l'omissione, siccome implicante
l'esistenza a suo carico di particolari obblighi di prevenzione dell'evento poi
verificatosi e, quindi, di un generico dovere di intervento (omissione
generica) in funzione dell'impedimento di quell'evento,
il giudizio relativo alla sussistenza del nesso causale non può limitarsi alla
mera valutazione della materialità fattuale, bensì
postula la preventiva individuazione dell'obbligo specifico o generico di
tenere la condotta omessa in capo al soggetto. L'individuazione di tale obbligo
si connota come preliminare per l'apprezzamento di una condotta omissiva sul piano
della causalità, nel senso che, se prima non si individua, in relazione al
comportamento che non risulti tenuto, il dovere generico o specifico che lo
imponeva, non è possibile apprezzare l'omissione del comportamento sul piano
causale.
La causalità nell'omissione
non può essere di ordine strettamente materiale, poiché ex nihilo nihil flt.
Anche coloro (corrente
minoritaria) che sostengono la causalità materiale nell'omissione e non la
causalità normativa (basata sull'equiparazione disposta dall'art. 40 c.p.)
fanno coincidere l'omissione con una condizione negativa perché l'evento
potesse realizzarsi. La causalità è tuttavia accertabile attraverso un giudizio
ipotetico: l'azione ipotizzata, ma omessa, avrebbe impedito l'evento?
In altri termini non può
riconoscersi la responsabilità per omissione quando il comportamento omesso,
ove anche fosse stato tenuto, non avrebbe comunque impedito l'evento
prospettato: la responsabilità non sorge non perché non vi sia stato un
comportamento antigiuridico (l'omissione di un comportamento dovuto è di per sé
un comportamento antigiuridico), ma perchè quell'omissione
non è causa del danno lamentato.
Il giudice pertanto è
tenuto ad accertare se l'evento sia ricollegabile all'omissione (causalità
omissiva) nel senso che esso non si sarebbe verificato se (causalità ipotetica)
l'agente avesse posto in essere la condotta doverosa impostagli, con esclusione
di fattori alternativi. L'accertamento del rapporto di
causalità ipotetica passa attraverso l'enunciato "controfattuale"
che pone al posto dell'omissione il comportamento alternativo dovuto, onde
verificare se la condotta doverosa avrebbe evitato il danno lamentato dal
danneggiato.
8.6. Si deve quindi
ritenere che i principi generali che regolano la causalità di fatto sono anche
in materia civile quelli delineati dagli artt. 40 e
41 c.p e dalla "regolarità causale", in
assenza di altre norme nell'ordinamento in tema di nesso eziologico
ed integrando essi principi di tipo logico e conformi
a massime di esperienza.
Tanto vale certamente
allorché all'inizio della catena causale è posta una condotta omissiva o commissiva, secondo la norma generale di cui all'art. 2043 c.c..
Né può costituire valida
obbiezione la pur esatta considerazione delle profonde differenze morfologiche
e funzionali tra accertamento dell'illecito civile ed accertamento
dell'illecito penale, essendo il primo fondato sull'atipicità dell'illecito,
essendo possibili ipotesi di responsabilità oggettiva ed essendo diverso il
sistema probatorio.
La dottrina, che sostiene
tale linea interpretativa, finisce per giungere alla conclusione che non può
definirsi in modo unitario il nesso di causalità materiale in civile, potendo
avere tante sfaccettature quante l'atipicità dell'illecito.
Altra parte della
dottrina, sulla base delle stesse considerazioni, ha finito per dissolvere ogni
questione sulla causalità materiale in una questione di causalità giuridica (in
diversa accezione da quella sopra esposta, con riferimento all'art. 1223 ce), per cui un certo danno è addebitato ad un soggetto chiamato
a risponderne ed il legame "causale" tra responsabile e danno è tutto
normativo.
8.7.Ritengono queste S.U. che le suddette
considerazioni non sono decisive ai fini di un radicale mutamento di indirizzo,
dovendosi solo specificare che l'applicazione dei principi generali di cui agli
artt. 40 e 41 cp., temperati dalla " regolarità causale", ai fini
della ricostruzione del nesso eziologico va adeguata
alle peculiarità delle singole fattispecie normative di responsabilità civile.
Il diverso regime
probatorio attiene alla fase di accertamento giudiziale, che è successiva al
verificarsi ontologico del fatto dannoso e che può anche mancare. Di questo si
vedrà più ampiamente in seguito.
E' vero che la
responsabilità civile orbita intorno alla figura del danneggiato, mentre quella
penale intorno alla figura dell'autore del reato, ma come è stato acutamente
rilevato, un responsabile è pur sempre necessario, se non si vuole trasformare
la responsabilità civile in un'assicurazione contro i danni, peraltro in
assenza di premio.
L'atipicità dell'illecito
attiene all'evento dannoso, ma non al rapporto eziologico tra lo stesso e l'elemento che se ne assume
generatore, individuato sulla base del criterio di imputazione.
E' vero, altresì, che,
contrariamente alla responsabilità penale, il criterio di imputazione della
responsabilità civile non sempre è una condotta colpevole; ciò comporta solo
una varietà di tali criteri di imputazione, ma da una parte non elimina la
necessità del nesso di causalità di fatto e dall'altra non modifica le regole giuridico-logiche che presiedono all'esistenza del rapporto eziologico.
Il problema si sposta sul
criterio di imputazione e sulle figure (tipiche) di responsabilità oggettiva.
E' esatto che tale criterio di imputazione è segnato spesso da un'allocazione
del costo del danno a carico di un soggetto che non necessariamente è autore di
una condotta colpevole (come avviene generalmente e come è previsto dalla
clausola generale di cui all'art. 2043 ce, secondo il principio classico, per cui non vi è responsabilità senza colpa: "ohne schuld keine
haftung), ma ha una determinata esposizione a rischio
ovvero costituisce per l'ordinamento un soggetto più idoneo a sopportare il
costo del danno (dando attuazione, anche sul terreno dell'illecito, al
principio di solidarietà accolto dalla nostra Costituzione) ovvero è il
soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui deve sopportarne la responsabilità, per
essersi trovato, prima del suo verificarsi, nella situazione più adeguata per
evitarlo nel modo più conveniente, sicché il verificarsi del danno discende da
un'opzione per il medesimo, assunta in alternativa alla decisione contraria.
Sennonché il criterio di
imputazione nella fattispecie ( con le ragioni che lo ispirano) serve solo ad
indicare quale è la sequenza causale da esaminare e può anche costituire un
supporto argomentativo ed orientativo
nell'applicazione delle regole proprie del nesso eziologico,
ma non vale a costituire autonomi principi della causalità. Sostenere il
contrario implica riportare sul piano della causalità elementi che gli sono
estranei e che riguardano il criterio di imputazione della responsabilità o
l'ingiustizia del danno.
8.8.Un rapporto causale concepito allo
stato puro tende all'infinito. La responsabilità oggettiva non può essere pura
assenza o irrilevanza dei criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione
di questi con altri di natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la medesima funzione che da sempre
è propria dei criteri soggettivi di imputazione nei fatti illeciti. Mentre
nella responsabilità per colpa quest'ultima si asside su un nesso causale tra
evento e condotta ai fini della qualificazione di quest'ultima in funzione
della responsabilità, nella responsabilità oggettiva sono i criteri di
imputazione ad individuare il segmento della sequenza
causale, tendenzialmente infinita, alla quale fare riferimento ai fini della
responsabilità.
Anzi, a ben vedere, sono decisivi nella sfera giuridica "da fare
responsabile". Ciò perché nella fattispecie di responsabilità oggettiva il
nesso causale non si identifica nel rapporto eziologico
tra evento e condotta di un agente candidato alla responsabilità, bensì o si
riferisce alla condotta di altri o addirittura non coincide con una condotta,
bensì con una concatenazione tra fatti di altra natura, inidonea a risolvere la
questione della responsabilità. Tale questione la norma di volta in volta
risolve mediante qualcosa di ulteriore, che è costituito da una qualificazione,
espressiva appunto del criterio di imputazione. Esso in questo caso non si
limita a stabilire quale segmento di una certa catena causale debba ritenersi
rilevante ai fini della responsabilità, ma addirittura serve ad individuare la
catena causale alla quale fare riferimento e, attraverso tale riferimento, la
sfera soggettiva sulla quale deve gravare il costo del danno.
8.9.Sennonchè detto ciò, ai fini
dell'individuazione del soggetto chiamato alla responsabilità dal criterio di
imputazione, un nesso causale è pur sempre necessario tra l'evento dannoso e,
di volta in volta, la condotta del soggetto responsabile (in ipotesi di
responsabilità per colpa) o la condotta di altri (ad es. art. 2049 ce.) o i
fatti di altra natura considerati dalla specifica norma (ad es. artt. 2051, 2052, 2054, c. 4, ce), posti all'inizio della
serie causale.
Rimane il problema di
quando e come rilevi giuridicamente tale "concatenazione causale" tra
la condotta di altri e l'evento ovvero tra il fatto di altra natura e l'evento
( di cui debba rispondere il soggetto gravato della responsabilità oggettiva).
In assenza di norme
civili che specificamente regolino il rapporto causale, ancora occorre far
riferimento ai principi generali di cui agli artt. 40
e 41 c.p., con la
particolarità che in questo caso il nesso eziologico
andrà valutato non tra la condotta del soggetto chiamato a rispondere, ma tra
l'elemento individuato dal criterio di imputazione e l'evento dannoso. In altri
termini, mentre nella responsabilità penale il rapporto eziologico
ha sempre come punto di riferimento iniziale la condotta dell'agente, in tema
di responsabilità civile extracontrattuale il punto di partenza del segmento causale rilevante può essere anche altro, se in
questi termini la norma fissa il criterio di imputazione, ma le regole per
ritenere sussistente, concorrente, insussistente o interrotto il nesso causale
tra tale elemento e l'evento dannoso, in assenza di altre disposizioni
normative, rimangono quelle fissate dagli artt. 40 e
41 c.p.. Il rischio o il
pericolo, considerati eventualmente dal la ratio dello specifico paradigma
normativo ai fini dell'allocazione del costo del danno, possono sorreggere la
motivazione che porta ad accertare la causalità di fatto, ma restano categorie
di mero supporto che da sole non valgono a costruire autonomamente una teoria
della causalità nell'illecito civile.
8.10. Essendo questi i principi che regolano il procedimento
logico-giuridico ai fini della ricostruzione del nesso causale, ciò che muta
sostanzialmente tra il processo penale e quello civile è la regola probatoria,
in quanto nel primo vige la regola della prova "oltre il ragionevole
dubbio" (cfr. Cass. Pen. S.U. 11 settembre 2002,
n. 30328, Franzese), mentre nel secondo vige la
regola della preponderanza dell'evidenza o "del più probabile che
non", stante la diversità dei valori in gioco nel processo penale tra
accusa e difesa, e l'equivalenza di quelli in gioco nel processo civile tra le
due parti contendenti, come rilevato da attenta dottrina che ha esaminato
l'identità di tali standars delle prove in tutti gli
ordinamenti occidentali, con la predetta differenza tra processo civile e
penale (in questo senso vedansi:
Detto standard di
"certezza probabilistica" in materia civile non può essere ancorato
esclusivamente alla determinazione quantitativa-statistica
delle frequenze di classi di eventi (ed. probabilità quantitativa o pascaliana), che potrebbe anche mancare o essere inconferente, ma va verificato riconducendone il grado di
fondatezza all'ambito degli elementi di conferma (e nel contempo di esclusione
di altri possibili alternativi) disponibili in relazione al caso concreto (ed.
probabilità logica o baconiana). Nello schema
generale della probabilità come relazione logica va determinata l'attendibilità
dell'ipotesi sulla base dei relativi elementi di conferma
(ed. evidence and inference
nei sistemi anglosassoni).
8.11. Le considerazioni
sopra esposte, maturate in relazione alla problematica del nesso di causalità,
portano ad enunciare il seguente principio di diritto per la decisione del caso
concreto, attinente alla responsabilità del Ministero della Sanità (oggi della
Salute) da omessa vigilanza, correttamente applicato dalla sentenza impugnata:
"Premesso che sul
Ministero gravava un obbligo di controllo, direttive e vigilanza in materia di impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati)
anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia
sanitaria, affinchè fosse utilizzato sangue non
infetto e proveniente da donatori conformi agli standars
di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività,
accertata, altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la
conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed
accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in
soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori
alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia,
e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta,
avrebbe impedito la versificazione dell'evento".
9.1. Dal principio sopra
esposto in tema di nesso causale da comportamento omissivo, emerge anche il
criterio per la delimitazione temporale della responsabilità del Ministero.
Questa Corte, con sentenza 31/05/2005, n.11609,
osservava che, finché non erano conosciuti dalla scienza medica mondiale, i
virus della HIV, HBC ed HCV, proprio perché l'evento infettivo da detti virus
era già astrattamente inverosimile, in quanto addirittura anche astrattamente
sconosciuto, mancava il nesso causale tra la condotta omissiva del Ministero e
l'evento lesivo, in quanto all'interno delle serie causali non poteva darsi
rilievo che a quelle soltanto che, nel momento in cui si produsse l'omissione
causante e non successivamente, non apparivano del tutte
inverosimili, tenuto conto della norma comportamentale o giuridica, che
imponeva l'attività omessa. La corte di legittimità, quindi, riteneva esente da
vizi logici la sentenza della Corte di appello, che
aveva ritenuto di delimitare la respon sabilità del Ministero a decorrere dal 1978 per l'HBC
(epatite B), dal 1985 per l'HIV e dal 1988 per l'HCV (epatite C), poiché solo
in tali rispettive date erano stati conosciuti dalla scienza mondiale
rispettivamente i virus ed i tests di
identificazione.
9.2. Ritengono, invece,
queste S.U. (in conformità a quanto ritenuto da una parte della giurisprudenza
di merito e della dottrina) che non sussistono tre eventi lesivi, come se si
trattasse di tre serie causali autonome ed indipendenti, ma di un unico evento
lesivo, cioè la lesione dell'integrità fìsica (essenzialmente
del fegato), per cui unico è il nesso causale:
trasfusione con sangue infetto - contagio infettivo - lesione dell'integrità.
Pertanto già a partire dalla data di conoscenza dell'epatite B (la cui
individuazione, costituendo un accertamento fattuale,
rientra nell'esclusiva competenza del giudice di merito) sussiste la
responsabilità del Ministero anche per il contagio degli altri due virus, che
non costituiscono eventi autonomi e diversi, ma solo forme
di manifestazioni patogene dello stesso evento lesivo dell'integrità fisica da
virus veicolati dal sangue infetto, che il Ministero non aveva controllato,
come pure era obbligato per legge.
Di fronte ad obblighi di prevenzione, programmazione, vigilanza e
controllo imposti dalla legge, deve inoltre sottolinearsi che si arresta la
discrezionalità amministrativa, ove invocata per giustificare le scelte operate
nel peculiare settore della plasmaferesi. Il dovere
del Ministero di vigilare attentamente sulla preparazione ed utilizzazione del
sangue e degli emoderivati postula un dovere
particolarmente pregnante di diligenza nell'impiego delle misure necessarie a
verificarne la sicurezza, che comprende il dovere di adoperarsi per evitare o
ridurre un rischio che è antico quanto la necessità della trasfusione.
9.3.E' infondata anche la censura
relativa alla mancato accertamento dell'elemento psicologico colposo del
Ministero. Avendo ritenuto il giudice di merito che il Ministero aveva
l'obbligo di controllare che il sangue utilizzato per le trasfusioni o per gli emoderivati fosse esente da virus e che i donatori non
presentassero alterazioni delle transaminasi,
l'omissione di tale condotta, integrando la violazione di un obbligo specifico,
integra la colpa.
10.Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente lamenta la violazione e
falsa applicazione degli artt. 2043, 2059 ce, nonché
l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo
della controversia, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.
Assume il ricorrente che erratamente la sentenza
impugnata ha riconosciuto agli attori il danno morale, mentre per il combinato
disposto degli artt. 2059 ce e 185 cp. sarebbe stato necessario individuare una persona fìsica che potesse rispondere del reato e che la stessa fosse legata al Ministero da rapporto di dipendenza.
11. Il motivo è
infondato.
Anzitutto va osservato
che l'azione civile per il risarcimento del danno, nei confronti di chi è
tenuto a rispondere dell'operato dell'autore del fatto che integra un'ipotesi
di reato, è ammessa - tanto per i danni patrimoniali che per quelli non
patrimoniali - anche quando rimanga ignoto l'autore
del fatto che integra un'ipotesi di reato, sempre che sia certa l'appartenenza
di quest'ultimo ad una cerchia di persone legate da un rapporto organico o di dipendenza
con il soggetto che di quell'attività deve rispondere
(Cass. 10/02/1999, n.l 135; Cass. 21/11/1995, n.12023).
Ne consegue che, una
volta che il giudice di merito aveva accertato che il
Ministero non aveva compiuto l'attività di farmacosorveglianza,
cui era normativamente tenuto, tale omissione non
poteva che essere addebitata che ad uno o più funzionari preposti a tale
attività, risultando indifferente che poi gli stessi fossero rimasti ignoti.
11.2.In ogni caso l'infondatezza del
motivo discende anche dal nuovo orientamento interpretativo dell'art. 2059 ce,
adottato da questa Corte con le sentenze 31.5.2003 n. 8827 ed 8828, ed ormai
consolidato (cfr. Cass. 27.6.2007, n. 14846) secondo
cui il danno non patrimoniale conseguente all'ingiusta lesione di un interesse
inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini
della risarcibilità, al limite derivante dalla
riserva di legge correlata all'art. 185 cp., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità
del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge
consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito,
dopo l'entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge
fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei
diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica
implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo co nfigura un caso determinato
dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale.
12.Pertanto va accolto parzialmente il primo motivo di ricorso e
vanno rigettati il secondo ed il terzo. Va cassata, in relazione al motivo
accolto, l'impugnata sentenza e va rinviata la causa, anche per le spese del
giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte
di appello di Roma, che si uniformerà ai principi di diritto esposti al punto
3.4. Esistono giusti motivi per compensare per intero le spese di questo
giudizio di cassazione tra A. C. ed il ricorrente Ministero.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile
il ricorso proposto dal Ministero della Salute nei confronti di A. C. e
compensa tra gli stessi le spese di questo giudizio di cassazione. Quanto agli
altri, accoglie, nei termini di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso
e rigetta i restanti motivi. Cassa, in relazione al motivo accolto, l'impugnata
sentenza e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, ad
altra sezione della Corte di appello di Roma.
Così deciso in Roma, lì
20 novembre 2007.