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Dottore ti denuncio

di Paolo Biondini

 

Le cause per la malasanità raggiungono ormai quota 30 mila l'anno. Medici e ospedali spendono per assicurarsi oltre mezzo miliardo. Ma per i risarcimenti i malati devono aspettare decenni

 

 

La sanità italiana spende ogni anno più di 500 milioni di euro solo per assicurarsi contro il rischio di ferire o uccidere i pazienti. È una spesa fuori controllo che ha l'effetto di una tassa occulta sulla salute dei cittadini: almeno mille miliardi di vecchie lire che, a ogni scadenza di bilancio, si trasformano in costi ospedalieri finanziati dallo Stato, finendo così per gravare su tutti i contribuenti. A differenza dell'Irpef o dell'Ici, questa imposta segreta sulla malasanità continua a salire a ritmi vertiginosi - nell'ultimo decennio l'aumento medio è di oltre il 20 per cento ogni 12 mesi - seguendo dinamiche inarrestabili: l'esborso finale è sempre variabile e imprevedibile, perché corrisponde all'insieme dei risarcimenti liquidati in migliaia di vertenze individuali.

Oggi si contano circa 30 mila denunce all'anno per vere o presunte colpe professionali di medici e infermieri o per disservizi delle strutture sanitarie. Sul numero di vittime, in Italia non esistono stime accurate, ma le cifre degli Stati Uniti sono impressionanti: 98 mila morti all'anno di malasanità. Ora anche nel nostro Paese il boom delle cause intentate dai pazienti o dai loro familiari, che hanno cominciato ad affollare i tribunali dalla metà degli anni Novanta, sta provocando un'esplosione delle spese assicurative.

Ma il corrispondente aumento degli indennizzi è tanto forte e diffuso che gli esperti cominciano a temere quei fenomeni predatori che fino a ieri sembravano tipici del sistema privatistico americano: l'abuso della malasanità come nuova frontiera delle speculazioni organizzate e delle frodi. Di fatto anche in Italia i drammi professionali dei medici e le tragedie dei pazienti si consumano tra liti e processi interminabili, perizie e consulenze contraddittorie, sospetti di connivenze e corruzioni, in un clima generale di sospetto e diffidenza che avvelena la sanità e ostacola la giustizia.


Roberto T. era un bambino di sei anni, sano e molto intelligente, quando è diventato vittima di un orrore ospedaliero che ha convinto i giudici di Milano a infliggere il più elevato risarcimento individuale documentabile negli ultimi vent'anni. Ricoverato all'ospedale Buzzi per una semplice operazione alle tonsille, il bimbo entra in coma e dopo tre giorni ne esce cieco, paralizzato e con un deficit mentale del 90 per cento.

La causa civile intentata dai suoi disperati genitori ha fatto scuola, perché ha segnato uno spartiacque nella valutazione delle prove scientifiche in un caso che sembra riassumere tutto quello che non dovrebbe succedere in un paese civile. Per cominciare, i tempi. L'intervento chirurgico (tonsillectomia) risale al 16 marzo 1989, la sentenza di primo grado è del 21 febbraio 1997, quella d'appello del 6 novembre 2001, per cui le condanne diventano definitive nel 2002: giustizia è fatta, ma dopo 13 anni. Secondo problema. Come in tutti i processi sanitari, di fatto a decidere sono le perizie. Firmate da altri medici, cioè da colleghi degli imputati. Nelle motivazioni (finora inedite) si legge che il primo collegio di periti aveva escluso qualsiasi responsabilità dei medici del Buzzi. Senonché il giudice istruttore scopre gravi lacune nel referto, s'infuria e nomina un secondo collegio, che invece accerta "colpe evidenti" del primario e di altri tre dottori.

In appello, l'inevitabile terza perizia riconferma l'accusa ai quattro medici di non essersi accorti neppure che il bambino sotto i ferri aveva "una vistosa emorragia interna con perdita di mezzo litro di sangue", che gli ha bloccato la respirazione. Tutti i periti sono d'accordo solo nel condannare il Buzzi, l'ospedale dei neonati di Milano, che all'epoca "non aveva nemmeno una rianimazione". Nel frattempo ai baroni innocentisti, benché smentiti dalle altre due squadre di periti, non succede nulla:continuano a lavorare anche per i tribunali, perché la medicina non è una scienza matematica. Il risarcimento-record (più di 5 miliardi di lire da sommare a 13 anni di interessi calcolati all'8,12 per cento) sfonda il massimale coperto dalle assicurazioni e quindi diventa un costo imprevisto per l'ospedale che, non avendo risorse illimitate, deve recuperare i soldi tagliando altre spese.

 

Rimborsi superiori, per quanto è possibile documentare, sono stati pagati solo per tragedie collettive, come il rogo del 31 ottobre 1997 nella camera iperbarica dell'ospedale privato Galeazzi (11 morti e, per la prima volta in Italia, un primario che sconta davvero in carcere la condanna a quattro anni) o il disastro nazionale delle migliaia di trasfusioni infette. L'avvocato Rosario Alberghina oggi ricorda soprattutto "quanto è stato difficile ottenere giustizia per Roberto" e ne attribuisce il merito "al coraggio del giudice di ordinare una seconda perizia" e alla "evoluzione generale della giurisprudenza: fino agli anni Novanta era difficilissimo dimostrare la colpa dei medici. Era quasi una prova diabolica".

Vent'anni dopo, suggeriscono i sanitari, l'Italia sembra caduta nell'eccesso opposto: troppe denunce, troppi dottori sotto accusa, troppi risarcimenti facili. Secondo stime diffuse dalla Federazione degli Ordini dei medici, ogni anno i pazienti italiani farebbero piovere "oltre 16 mila esposti" contro ospedali (7.500) e singoli dottori (8.500).

A pagare il conto, però, sono quasi sempre le assicurazioni. E i loro archivi, in gran parte inesplorati, amplificano il boom dei risarcimenti per colpe mediche e, in misura ancora maggiore, per i danni provocati dall'inadeguatezza e disorganizzazione delle strutture: in dieci anni il totale è addirittura decuplicato. L'Ania, l'associazione che raggruppa il 91 per cento delle compagnie italiane, nel 1995 registrava poco più 17 mila denunce di malasanità, coperte da incassi contrattuali (premi) per 35 milioni di euro. Dieci anni dopo, le vertenze dei pazienti sono quasi raddoppiate (28.500 nel 2005) e i premi sono dieci volte superiori (381 milioni). Le assicurazioni registrano così circail doppio delle denunce conosciute dai medici, ma negano di guadagnarci, anzi giurano di subire perdite sempre più pesanti: per ogni cento euro incassati per i contratti del 1995, dichiarano di essere arrivate a pagarne, nel 2005, ben 216. Sempre stando all'Ania, questo sbilanciamento sarebbe una costante degli ultimi 15 anni, con punte di 313 euro versati per ogni 100 incassati nel 1998. Se questo è vero, significa che il boom delle cause di malasanità sarebbe tanto esasperato da far regolarmente saltare i calcoli e gli accantonamenti annuali delle compagnie. Che a quel punto ricaricano i costi, con altrettanta regolarità, sui premi pagati dalle strutture (pubbliche e private) e dai singoli medici.

In un settore a così alto rischio, le compagnie italiane stanno lasciando spazio a colossi stranieri come i Lloyd's di Londra e l'australiana Qbe. Il maggior gruppo italiano, Generali-Assitalia, nel 2007 ha risarcito180 milioni di euro a 2.500 pazienti. Nel 2006, a conferma dell'aumento dei rimborsi medi e della cessione di quote di mercato, le Generali avevano riversato la stessa cifra (178 milioni) su 2.800 malati.

Quasi in ogni ospedale sono attive associazioni di tutela dei pazienti. La rete più radicata è il Tribunale per i diritti del malato, che nel 2007 ha ricevuto 24.300 segnalazioni di errori medici o di altri disservizi sanitari. I settori più a rischio sono l'ortopedia (18,7 per cento delle denunce di malpractice), oncologia (12,1), chirurgia generale (9,5), ginecologia-ostetricia (6,9), odontoiatria (5,5), oculistica (5,4), cardiologia e neurologia (4 ciascuna). C'è il ragazzo che "si frattura il gomito destro. Ingessato dopo l'intervento, accusa dolore e la mano gli diventa nera. I medici dicono di allargare il gesso. Il paziente entra in coma e dopo 19 giorni muore per infezione. Le cartelle cliniche sequestrate dalla procura risultano alterate". C'è la signora che "operata all'anca, scopre dopo quattro mesi di avere una gamba più corta di sei centimetri". E la donna che "accusava dolori dopo il parto cesareo. La lastra ha evidenziato una garza infetta nell'utero. Nella lunga convalescenza ha perso il lavoro". Per non citarne che alcuni.

I casi più costosi per le assicurazioni, sempre nel 2007, sono iparti con invalidità totale dei neonati (da 2 a 4,5 milioni di euro), la mancata diagnosi di tumori mortali (un milione), i più gravi danni ortopedici (400 mila euro) e le trasfusioni di sangue infetto (rimborsi medi da 200 a 400 mila euro). Oltre ad allargare il danno risarcibile alle vittime (patrimoniale, morale, biologico ed esistenziale), la giurisprudenza ha via via esteso il diritto ai rimborsi anche ai familiari in proprio.

Il risultato è un circolo vizioso. I pazienti e i loro avvocati presentano sempre più denunce. I giudici riconoscono risarcimenti sempre più numerosi ed elevati. Medici e amministrazioni pagano premi assicurativi sempre più cari, con aumenti annui (dichiarati dall'Ania) dal 10 fino al 59 cento. Gli ospedali sono sempre più indebitati e finiscono spesso col tagliare anche le spese necessarie a ridurre gli errori. E il giro ricomincia, sempre più a caro prezzo.

A questo punto parecchi periti giudiziari cominciano a sospettare il peggio. Il medico e criminologo Michele Bellomo, docente della Scuola di specializzazione in Medicina legale dell'Università di Foggia, vede più di un'anomalia dietro il boom delle cause sanitarie: "Non vi è dubbio che stiano nascendo organizzazioni interessate a vario titolo ai risarcimenti spesso milionari che ne derivano". Bellomo è l'esperto che ha aiutato a scoprire le più clamorose frodi sistematiche, con falsi referti e corruzioni a catena, nel settore dei sinistri stradali. Altri periti assicurativi, che chiedono di non essere nominati, segnalano "casi di galoppini mandati negli ospedali di Napoli e di Roma a reclutare pazienti"; strane società che "comprano cause sanitarie" a prezzi da "recupero crediti"; studi legali e singoli avvocati che, invece di ricevere i clienti, "vanno a caccia di malati promettendo processi gratuiti in cambio di una compartecipazione agli indennizzi, da dividere con il consulente medico associato".

Luigi Palmieri, professore di medicina legale a Napoli e coordinatore dell'Osservatorio nazionale sulla malpractice (che ha coinvolto 12 università nello studio di 600 casi-pilota all'anno, finché nel 2006 sono cessati i finanziamenti), conferma che tra i periti dei tribunali "è sempre più diffusa la sensazione di una progresssiva strumentalizzazione delle cause per fini di profitto". Sensazione suffragata dal "crescente numero di denunce che già a un primo esame si rivelano totalmente infondate o che vengono presentate a grande distanza dai fatti, anche otto o nove anni dopo il preteso danno".

Al di là delle deviazioni illegali, la malasanità è sicuramente diventata un business, fino a prova contraria lecito. Il decreto Bersani sulle liberalizzazioni, sbloccando le tariffe forensi, ha legalizzato i cosiddetti "patti di quota lite", con cui i legali si fanno riconoscere una percentuale in caso di vittoria. "L'articolo 19 del codice deontologico continua però a vietare a tutti gli avvocati qualsiasi accaparramento di clientela in luoghi pubblici come gli ospedali, nonché al domicilio degli utenti o pagando provvigioni", precisa Ubaldo Perfetti, vicepresidente del Consiglio nazionale forense. "Ma è chiaro che il patto di quota lite può prestarsi a qualche strumentalizzazione".

Del tutto legale è l'offerta lanciata da società come la Sanitalex spa di San Marino, 77 mila euro di capitale, che garantisce ai pazienti "assistenza legale e consulenze specialistiche senza alcun anticipo: il nostro compenso e gli stessi rimborsi spese verranno riconosciuti solo in caso di risarcimento". Mentre associazioni come il Periplo familiare di Roma, che ha per "presidente onorario il giudice Santi Licheri", il popolare arbitro televisivo di 'Forum', pubblicizza con annunci a tutta pagina un numero verde, dove una signorina risponde che "l'assistenza legale è gratuita", mentre "il paziente deve pagare solo le consulenze tecniche".

A questo punto anche i migliori medici italiani si sentono assediati e criminalizzati. L'oncologo Alberto Scanni, direttore dell'Istituto dei Tumori di Milano, testimonia: "Purtroppo comincia ad affermarsi anche nel nostro Paese un concetto di medicina difensiva. Nel timore di future denunce, il medico è indotto a eccedere in esami e prescrizioni che non hanno una reale necessità per il paziente, ma servono a precostituirsi una prova a discarico". Il cardiologo Marco Bobbio, primario all'ospedale Santa Croce e Carle di Cuneo, sottoscrive la stessa diagnosi e inserisce l'escalation delle cause sanitarie in "un aumento a tutti i livelli di un senso di risentimento, un imbarbarimento sociale che porta ogni individuo a sentirsi vittima di un torto, dalla bega di condominio ai problemi più gravi, e a cercare per forza un colpevole. Per dirla con un paradosso: diventare madri è sempre meno pericoloso, ma fare i ginecologi lo è sempre di più. Se nei secoli scorsi moriva di parto una donna su 20, e quindi la morte era considerata un evento naturale, oggi che il tasso è sceso a un decesso su 6 mila parti, il marito si chiede: perché proprio mia moglie? Nonostante tutti i progressi, la mortalità non potrà mai essere uguale a zero".

Negli Usa, dove un ricoverato su cento denuncia l'ospedale, 34 Stati hanno approvato leggi che dichiarano "inammissibili" come prove le scuse rivolte ai pazienti dai medici che ammettono l'errore. L'Università del Michigan, come informava la settimana scorsa il 'New York Times', ha studiato gli effetti della prima sperimentazione di una nuova strategia: dopo decenni in cui avvocati e assicuratori invitavano a "negare e difendersi", ora i 'risk manager' di centri come Stanford e John Hopkins esortano i medici ad "ammettere e scusarsi". Risultato: le denunce sono crollate da 263 nell'agosto 2001 a 83 nello stesso mese di sei anni dopo. Il ritrovato clima di fiducia porta i pazienti ad accettare l'offerta di rimborsi sostenibili dall'ospedale e i dottori a imparare dagli errori riconosciuti e studiati apertamente. In Italia giuristi come Uckmar e Galgano parlano di "tendenza a oggettivizzare la colpa": dal dottore alla struttura. E medici e magistrati cominciano a sognare a una rivoluzione legale: risarcire il danno al paziente senza più obbligarlo a dimostrare la colpa del medico.

 

Da l’espresso del 29 maggio 2008